ARTURO LANZANI
Modelli insediativi, forme di coabitazione e mutamento dei luoghi urbani. Urbanistica 111, 98
È indubbio che l’urbanistica italiana ha manifestato negli ultimi anni un evidente disagio nell’affrontare la problematica dell’immigrazione come questione interna alle più generali tematiche di organizzazione del territorio e degli insediamenti. Da un lato, infatti, una riflessione autoreferenziale sulla forma della città, spesso coniugata con un’attenzione prevalente per il grande progetto urbano, ha considerato questo fenomeno come oggetto specifico ed esclusivo di altre politiche amministrative (di tipo socioassistenziale), come se da sempre i fenomeni migratori e il sovrapporsi e l’intersecarsi di diverse popolazioni non fossero uno dei più interessanti elementi di trasformazione del territorio, degli insediamenti, dei modi dell’abitare.
D’altra parte l’ossessione per l’unicità delle procedure, tipica di una certa cultura giuridico-urbanistica, ha reso difficile qualsiasi innovazione regolamentare di fenomeni legati all’immigrazione (regolazione del commercio ambulante o in sede fissa, di forme di residenza temporanea e/o collettiva, di sviluppo di laboratori artigianali, ecc.) che esercitano un ruolo importante nelle microtrasformazioni e nelle metamorfosi urbane. Infine una distinzione forse eccessiva tra le problematiche dell’housing e quelle dell’urbanistica e un impegno volenteroso, ma forse riduttivo, di pochi urbanisti verso i soli problemi legati alla localizzazione e all’organizzazione tipologica dei centri di prima accoglienza non ha contribuito a un approfondimento più ricco del tema.
Recentemente sono tuttavia emersi alcuni contributi significativi che hanno sottolineato i molti possibili intrecci tra immigrazione e trasformazione degli spazi pubblici nonché i conflitti che possono emergere attorno a diverse idee dello spazio pubblico che la presenza degli immigrati porta a esplicitare, sottolineando in particolare il gioco di reciproche retroazioni tra utilizzo di spazi vuoti e di terreni vaghi e immigrazione, tra le trasformazioni nelle modalità d’uso di alcuni nodi (stazioni, piazze) e la presenza di nuovi soggetti. Altre riflessioni hanno evidenziato l’importanza dell’immigrazione in alcuni processi di rinnovo urbano e di riuso o di conservazione di alcuni spazi (piani terra commerciali, corti comuni, spazi artigianali, ecc.), le significative "corrispondenze" non solo tra certi sottomercati edilizi più o meno concentrati nella città e l’inserimento residenziale degli immigrati, ma anche tra talune caratteristiche tipo-morfologiche di diverse parti della città e lo sviluppo di quartieri etnicamente connotati, nonché più in generale il ruolo importante che l’immigrazione ha nel ridefinire immagine e identità di alcune parti di città.
In questo scritto formulerò qualche osservazione in questa direzione, dando per impliciti i presupposti metodologici di una strategia di ricerca relativamente consolidata e avvertendo che le considerazioni sviluppate nascono da un’osservazione limitata a pochi ambienti insediativi — Milano, Torino, Genova, nonché le conurbazioni reticolari e pedemontane della Brianza, della Bergamasca e del Bresciano — e da un’attenzione prevalente verso le popolazioni di origine nord-africana, senegalese e cinese.
Quartieri etnicamente connotati
Numerose ricerche hanno messo in evidenza il formarsi in diverse città italiane di quartieri etnicamente connotati. Alcuni aspetti caratterizzano questa modalità insediativa.
Dal punto di vista dei soggetti insediati si segnala innanzitutto una presenza consistente di immigrati (anche se non necessariamente secondo i più alti valori percentuali), la presenza spesso "caratterizzante" di alcuni gruppi nazionali, soprattutto un insediamento di immigrati non limitato al solo aspetto "residenziale", ma allargato alla presenza di alcune attività economiche promosse da immigrati e di luoghi di ritrovo e di incontro.
In particolare, la significativa presenza di negozi, ma anche laboratori artigianali etnici, si accompagna talora allo sviluppo di una vera e propria economia etnica. Viceversa, la presenza di luoghi di incontro talvolta in spazi aperti (vie, piazze, mercati, ecc.), talora in alcuni edifici (centri culturali, luoghi di culto, servizi commerciali, ecc.) che spesso presentano una permanenza più forte della stessa residenza, rende queste zone dei "luoghi centrali" per una più vasta popolazione di immigrati. Infine, va sottolineato che differentemente da realtà simili in altri paesi in questi quartieri si riconosce una consolidata condizione di coabitazione con la popolazione italiana, in uno spazio decisamente polisemico e ricco di differenti popolazioni e attività.
Dal punto di vista degli spazi possiamo forse riconoscere alcuni aspetti caratterizzanti.
In primo luogo la localizzazione nel centro storico o assai più spesso in alcuni borghi o espansioni ad esso contigui (si pensi al quartiere San Salvario e al settore urbano Porta Palazzo a Torino, al settore urbano Lazzaretto-Stazione centrale e alla zona Canonica-Sarpi a Milano), in frazioni storiche che presentano con i centri storici una certa uniformità nel tessuto, ma forme di edificazione ancor più dense e di minor qualità architettonico-immobiliare. Si tratta inoltre di parti urbane che presentano quasi sempre spazi relativamente articolati e che si prestano a una certa azione di reinterpretazione, specie lungo le vie interne alla maglia stradale principale (riuso dei piani terra commercial-artigianali, uso flessibile di cortili, scantinati, laboratori e magazzini). Molti di questi quartieri inoltre hanno conosciuto una lunga storia di "ospitalità" verso gli immigrati (contadini e gente di montagna recatasi in città, immigrati del nord-est o del sud diretti nel "triangolo industriale"), ma anche una storica presenza di attività ai confini della legalità (prostituzione, vendita di oggetti di dubbia provenienza). Molti di questi quartieri si configurano infine come luoghi storici dello "scambio" di merci, di popolazioni differenti (della città e della campagna, della collina e della città, di ceto alto e basso, ecc.), trovandosi non di rado in prossimità di stazioni e mercati. Più in generale questi quartieri presentano uno spazio strutturalmente multifunzionale, dominio di popolazioni mutevoli che lo condividono come luogo di residenza, di lavoro, di commercio, di gioco e di relazione interpersonale.
Se assumiamo come realtà esemplificativa l’insediamento cinese nel quartiere Canonica-Sarpi di Milano possiamo meglio enucleare altri aspetti di questa modalità insediativa.
La genesi di questi insediamenti è generalmente legata a un processo di territorializzazione della presenza degli immigrati che passa almeno attraverso tre tipi di azioni: la prima è la rinominazione dell’area in modo tale da esplicitarne, anche se in modi riduttivi o fuorvianti, la parziale connotazione etnica; la seconda è un’interazione tra soggetti sociali e configurazioni materiali dello spazio che produce alcune microtrasformazioni, ma più in generale e con maggior forza evidenzia un particolare grado di "congruenza" tra una configurazione materiale, consolidata e stabile e una nuova popolazione con la sua particolare organizzazione abitativa e socio-economica; la terza azione è la costruzione di un "contesto di senso", un sistema di relazioni territorializzato che può favorire un consolidamento della presenza di immigrati così come delle risposte alle esigenze di accoglienza dei nuovi arrivati da parte degli stessi immigrati già insediati, nonché l’avvio di iniziative economiche e culturali autonome e a volte di una vera e propria economia etnica. Non di rado nella traiettoria evolutiva di questi insediamenti emerge poi una crescente funzione di servizio del quartiere a popolazioni immigrate localizzate diffusamente nella città e nella regione, ma che qui ritrovano sempre più (perfino nei casi di un’indebolita o non crescente presenza residenziale di immigrati) negozi, servizi, luoghi di ritrovo, di culto, di incontro, ecc.
Osservando invece l’organizzazione "spaziale" si segnalano alcuni aspetti differenti a seconda della popolazione immigrata coinvolta, quali il diverso grado di "visibilità" nello spazio pubblico, i modi d’uso delle abitazioni, i ritmi di vita giornalieri differenti, non solo e non tanto in relazione alle diverse culture "etnico-regionali" dell’abitare, quanto soprattutto alla mutevole natura del nucleo familiare o alla tipologia di convivenza e modalità di inserimento lavorativo che variano notevolmente da una città all’altra.
Invece è certamente ricorrente una forte "congruenza" tra questo processo di territorializzazione e un insediamento originario caratterizzato dalla mixité, da una grana fine degli insediamenti, da spazi di differente natura e relativamente articolati e reinterpretabili; un insediamento che consente delle mi-crotrasformazioni e lo sviluppo di forme di vita "più esposte", che non impedisce la nascita di qualche attività economica seppur informale e precaria. Altrettanto ricorrente è il ritagliarsi in simili realtà coabitative di un territorio del sé, non facilmente valicabile da un estraneo, entro il quale si sviluppa un fitto reticolo di relazioni e talvolta si ricrea un vero e proprio milieu tipico di una popolazione immigrata che può facilitare l’inserimento dei nuovi arrivati ma è anche riconosciuto come tale dalla popolazione italiana che è insediata nel quartiere da più lungo tempo.
Infine, è di un certo interesse osservare come in questi insediamenti si crei non di rado una scena e un retroscena, una scena, data generalmente dai percorsi principali, più tradizionalmente "torinesi", "milanesi", "genovesi", dove si inseriscono in modo discontinuo nel tempo e nello spazio presenze, linguaggi, gestualità, comportamenti tipici degli immigrati e un retroscena — le vie minori, i cortili, gli scantinati, ecc. — più marcato dalla presenza degli immigrati, da una diversa vita relazionale. Una scena e un retroscena i cui confini si ridefiniscono e talvolta si ribaltano in differenti ore della giornata, nei giorni festivi rispetto a quelli feriali in relazione a differenti cicli spazio-temporali delle popolazioni che coabitano o attraversano questi insediamenti.
Un’attività di "riuso" importante e poco valorizzata
Questa modalità insediativa ci consente forse di esplicitare un aspetto più generale dell’immigrazione raramente valorizzato dalle politiche urbanistiche. Si tratta della sua capacità di essere risorsa fondamentale nei processi di riuso e di rinnovo urbano, nonché, talvolta, di generare un’azione "paradossalmente" conservativa di alcuni modi d’uso.
L’attività di riuso riguarda innanzitutto alcuni specifici tipi di spazi. I recenti processi di riorganizzazione della rete distributiva, ossia lo sviluppo della grande distribuzione nelle sue diverse forme, la creazione di nuove aggregazioni di negozi e la riqualificazione di alcuni selezionati e tradizionali percorsi commerciali hanno infatti generato una drastica dismissione di piccoli e medi esercizi localizzati al di fuori dei percorsi principali. Nello stesso tempo il ridimensionamento del tessuto artigianal-industriale di alcune città, forse troppo enfatizzato, ma pur sempre presente, è alla base dell’abbandono di numerosi piccoli capannoni. Questi spazi commerciali e produttivi non sempre vengono riutilizzati grazie allo sviluppo di nuove imprese, all’espansione di attività terziarie o alla creazione di nuovi spazi residenziali. L’insediarsi di laboratori artigianali di immigrati, di negozi etnici garantisce pertanto l’utilizzo di questi spazi altrimenti destinati a rimanere vuoti.
Più in generale questa attività di riuso diventa interessante per due ragioni. In primo luogo il riuso consente in molti casi di mantenere un mix di attività, una grana fisica e funzionale fine dell’insediamento, dei modi d’uso articolati e una vita urbana tradizionalmente esposta venuta meno in altri quartieri soggetti ad altre trasformazioni e più in generale a processi genericamente definiti di "gentrificazione" che non di rado comportano una forte riduzione della complessità originaria di questi spazi. Si esplica così, entro una dinamica inevitabilmente evolutiva, un’azione per certi versi "conservativa" di talune forme dell’abitare che può risultare meritevole di interesse e che può essere favorita, indirizzata, regolata massimizzando i caratteri virtuosi, il valore che essa può assumere non solo per l’inserimento degli immigrati, ma per la città tutta, governando al tempo stesso quegli aspetti che possono creare dei problemi per chi coabita o in generale delle spirali negative nello stesso insediamento degli immigrati.
D’altra parte, di fronte alla varietà dei centri storici italiani, alle differenti dinamiche socioeconomiche che attraversano le città e i territori in cui sono inseriti e all’impossibilità che ovunque processi di forte valorizzazione immobiliare e sostituzione funzionale o ingenti investimenti pubblici promuovano un’azione di rinnovo, le forme più deboli di uso, manutenzione e risignificazione che l’immigrazione può generare non sono da sottovalutare (nella stessa Genova e Torino e ancor piu in altri centri storici, non solo del Mezzogiorno). In questa direzione la "storica" tematica urbanistica dei centri storici e quella fino a ora più squisitamente sociodemografica dell’immigrazione possono incrociarsi in modo fertile e diventare matrici di rilevanti politiche e progetti urbani, ma anche occasione per rivisitare le stesse normative dei piani regolatori, dei regolamenti edilizi e d’igiene. Un dialogo può essere l’occasione per riannodare in termini più generali lo studio sulla "città fisica", sui materiali e le morfologie urbane con le riflessioni sull’uso sociale dello spazio e soprattutto per legare, in queste zone soggette a microtrasformazioni, normative tipo-morfologiche ed edilizie, normative sugli usi, requisiti prestazionali, incentivi e supporti tecnici ai promotori di questo rinnovo.
Concentrazioni e insediamenti interstiziali, mercati abitativi e offerta pubblica
È possibile ora enunciare alcuni aspetti distintivi di tre/quattro altre modalità insediative, consapevoli che fuoriuscendo da una rappresentazione idealtipica molte realtà insediative legate all’immigrazione si collocano a cavallo di queste diverse modalità o tra queste e le precedenti. In questo senso si osservi come la zona del Carmine a Brescia, San Salvario a Torino si collochino effettivamente a cavallo tra la precedente modalità insediativa e la prima che andremo ora a descrivere, mentre il centro storico di Genova ancora più radicalmente si configura come un microcosmo dove convivono moltissime e diverse modalità insediative.
Le differenze tra questi modelli insediativi e il precedente non risiedono tanto in un dato quantitativo relativo alla densità (che nei primi due casi può essere anche superiore), quanto nel processo di territorializzazione, nelle modalità d’inserimento fisico-materiale e nella forza generativa che in tutti i casi gioca l’articolazione geografica dei mercati abitativi urbani o dell’offerta pubblica di abitazioni.
La prima modalità insediativa si esplica talora in settori del centro storico, più spesso in espansioni periferiche particolarmente dense, talvolta abbastanza recenti (sviluppi urbani degli anni ’30, e ’50-’60), anche se relativamente disetanei dal punto di vista dei singoli edifici, dove un patrimonio edilizio non particolarmente degradato, ma di medio-bassa qualità, conosce forme di utilizzo e non di rado di valorizzazione economica legate all’insediamento degli immigrati. Questa valorizzazione si esplica attraverso un’offerta di case in affitto con canoni anche relativamente alti che possono essere sopportati con for-me di coabitazione o comunque con un certo grado di affollamento all’interno dell’alloggio o nell’affitto con forme contrattuali precarie e provvisorie. Quest’offerta è tra le poche praticabili da immigrati relativamente stabilizzati ormai riunitisi in nuclei familiari che spesso ospitano qualche parente appena arrivato o in nuclei, talora spontanei, più spesso imposti dal mercato, di coabitazione. La forte prevalenza in alcuni settori urbani di tali segmenti del mercato abitativo, coniugandosi con la tipica cumulatività dei processi migratori, è alla base di situazioni di significativa concentrazione. In questo senso possono interpretarsi in parte la consolidata "colorazione" della zona a nord di piazzale Loreto, tra viale Monza e Padova, o del Corvetto, le due zone con più elevata presenza di immigrati extracomunitari di Milano, oppure i crescenti inserimenti nel ponente ge-novese, nei suoi fondovalle intensivamente edificati, ovvero a Torino in zona Mirafiori. D’altra parte la realtà di via Milano e via Piave a Brescia mostra come questa concentrazione possa svilupparsi in forma più "lineare" che zonale, lungo percorsi dove la qualità abitativa si abbassa non solo per le caratteristiche degli edifici, ma anche per l’intensità del traffico, con tutti i disagi che genera e il riconfermarsi di attività indesiderate quali la prostituzione. In tutti questi casi non si assiste allo sviluppo di un’economia etnica localizzata e neppure alla creazione di una geografia interna di spazi pubblici prevalente su quella esterna, ma semmai alla crescita di negozi (prevalentemente alimentari, ma anche di abbigliamento o di servizio artigianale come i parrucchieri) gestiti da immigrati che si rivolgono prevalentemente ad altri immigrati. Infine, in queste realtà si crea una convivenza consolidata tra italiani di ceto medio-basso e immigrati che non vivono in condizione di marginalità, per quanto risentano pesantemente di una situazione di disagio abitativo per un certo affollamento e per la precarietà della sistemazione residenziale.
Due altre modalità insediative sembrano presentarsi nelle città italiane. La prima nasce dalla non rara occupazione degli immigrati nel lavoro domestico che comporta (perlomeno in forme provvisorie e iniziali) l’inserimento residenziale nel luogo di lavoro (in stanze o mini-appartamenti) e che fa sì, ad esempio, che la zona 1 di Milano, alcune aree del centro storico e della collina torinese, o quartieri a est del centro storico di Genova, siano tra quelli a più alta presenza di immigrati da paesi poveri. In questo caso evidentemente si crea, tra popolazioni fortemente distanziate dal punto di vista della stratificazione sociale, una prossimità che non genera conflitto, ma neppure molte occasioni di confronto e di incontro. La densità medio-alta di immigrati non porta in queste zone a una significativa presenza pubblica (salvo in alcuni momenti della settimana) degli immigrati, i quali trovano o ricercano luoghi d’incontro, spazi di vita relazionale e servizi a loro rivolti all’esterno dei quartieri di residenza. La seconda situazione ricorrente è quella dell’inserimento in alcuni stabili/quartieri pubblici dove si assegnano alloggi popolari pariteticamente a cittadini italiani e stranieri. In questo caso il meccanismo di assegnazione porta non di rado a una concentrazione di situazioni di disagio (ad esempio nel quartiere Stadera o Calvairate Molise a Milano oppure in una delle torri di S. Polo a Brescia) che può far sì che l’inserimento di immigrati diventi una sorta di detonatore di situazioni di conflitto tra popolazioni già insediate e immigrati o più spesso tra popolazione "originaria" e pubblica amministrazione. Anche se per differenti ragioni, in tutti e due i casi va sottolineata la presenza di un processo che offre poche possibilità di autorganizzazione agli immigrati che si trovano comunque in una condizione di forte dipendenza.
Un’ultima modalità insediativa non produce invece situazioni di concentrazione e di forte densità territoriale, ma piuttosto una geografia "interstiziale". Si pensi in questo senso a processi tra loro assai diversi quali l’abitazione in affitto nei non pochi edifici dei nuclei storici di centri di media e piccola dimensione della bergamasca e del bresciano, verso i quali le ricche società locali non hanno finora manifestato particolare interesse a un riuso che comporti risanamenti e ristrutturazioni edilizie incisive e forme di valorizzazione immobiliare, oppure alle forme più strutturate di prima accoglienza in edifici del privato sociale (ex oratori, edifici religiosi o loro parti) o della pubblica amministrazione (specialmente scuole dismesse). Una simile geografia dispersa e interstiziale si ritrova in alcune prime sistemazioni alloggiative presso i luoghi del lavoro industriale (in una roulotte o in un retro di un deposito o edificio produttivo), particolarmente presenti nei territori dell’urbanizzazione diffusa. Infine, un simile insediamento interstiziale sembra legarsi al riuso di molti ristoranti e alla creazione di locali "etnici" che quasi sempre conferma e consolida precedenti assi e ambiti di maggior presenza di immigrati.
Comunque sia, nei quartieri etnicamente connotati il mutamento sembra esplicarsi nella forma di una metamorfosi di una parte di città che dal punto di vista dello spazio materiale conosce sia delle microtrasformazioni, sia una sostituzione che non produce radicali trasformazioni, ma anzi conserva alcuni tradizionali modi di abitare, mentre viceversa conosce con l’ispessirsi della presenza degli immigrati una significativa ridefinizione della propria identità, del proprio ruolo e senso urbano che si rende manifesto nelle stesse procedure di nominazione.
In tutte queste altre modalità, viceversa, la trasformazione sembra prodursi attraverso l’inserimento di "tasselli" di "spazi connotati da persone" che si affiancano ad altri spazi relativamente stabili. Questi "tasselli" possono avere una grana più o meno fine (una stanza, un alloggio, un fabbricato, raramente un intero isolato), possono essere tra loro variamente raggrumati e concentrati e inserirsi in ambiti spaziali assai differenti — più o meno in movimento, più o meno articolati al loro interno, più o meno degradati — ma in ogni caso modificano meno radicalmente l’identità di una parte urbana, confermando spesso il suo carattere preesistente, di enclave di degrado o di isola pregiata, di consolidata periferia residenziale o di area storicamente segnata dal forte attraversamento e dall’interscambio.
Inserimento insediativo e forme di conflittualità
Quanto detto sulla precedente modalità insediativa, ma più in generale dalle ricerche sulle forme d’inserimento insediativo degli immigrati, consente forse di avanzare qualche semplice osservazione sul tema più generale dei conflitti legati all’immigrazione.
In primo luogo il dato della "densità", che spesso ossessiona i governi della città e gli approcci giornalistici al tema, pare del tutto irrilevante sia perché essa è il prodotto di pratiche insediative e processi sociali profondamente differenti, sia perché non è facile definire un areale pertinente — la città, il quartiere, l’isolato, il fabbricato — per un’ipotetica soglia critica.
Nel caso dei quartieri etnicamente connotati possono manifestarsi differenti situazioni conflittuali. Le esigenze di processi di valorizzazione immobiliare e di gentrificazione possono entrare in conflitto con le più deboli forme di riuso degli spazi da parte degli immigrati, anche se proprio il caso milanese mostra come i due processi possano convivere o ritagliarsi differenti ambiti d’azione. Più facilmente situazioni conflittuali possono nascere per la difficile convivenza tra forme di vita esposte tipiche di molti immigrati e un’estrema interiorizzazione della vita urbana contemporanea della popolazione locale, oppure più banalmente per i rumori o gli odori generati da un laboratorio o da una "cucina" etnica che fino a pochi anni fa venivano comunemente accettati. Forme radicali di conflitto emergono solo quando un processo deteriore di stigmatizzazione sociale della presenza degli immigrati rischia di annullare le stesse potenzialità virtuose di questa modalità insediativa (come a San Salvario a Torino). Più in generale valgono a questo proposito le riflessioni di chi ha sottolineato gli aspetti positivi della concentrazione e della stessa forma del "ghetto", sia dal punto di vista dell’inserimento dei nuovi arrivati che trovano qui notevoli possibilità di autorganizzazione e un milieu più ospitale, sia dal punto di vista della popolazione locale che può più facilmente riconoscere la presenza di nuove popolazioni rapportandosi attivamente con esse, al limite anche attraverso stereotipi riduttivi e malintesi comunicativi.
Nelle altre forme insediative fin qui descritte, più banalmente, la presenza di conflitti sembra principalmente ascrivibile alle problematiche preesistenti del contesto di inserimento, così l’inserimento nell’edilizia pubblica dei quartieri popolari risulta più o meno difficile in relazione al livello di degrado dello stesso, al suo eventuale impoverimento, all’eventuale iperconcentrazione di situazioni di disagio, alla presenza di forme associative più o meno consolidate, a una popolazione più o meno articolata dal punto di vista socio-demografico, nonché alla presenza di attività illecite (essenzialmente lo spaccio e la prostituzione). Dalla non considerazione di tutto ciò nasce innanzitutto l’impossibilità di costruire politiche sociourbanistiche locali che trattino il fenomeno dell’immigrazione nella specificità.
Dalla non considerazione di ciò nonché dal più generale trattamento dell’immigrazione esclusivamente come problema, anziché come risorsa e/o come fonte di specifiche e mutevoli domande di governo, non meno che da oggettive condizioni di marginalità di alcuni individui immigrati, nascono anche quelle strategie di "occultamento alla vista" che descriveremo nel paragrafo successivo.
Inserimenti provvisori e strategie di occultamento alla vista
Questa modalità insediativa, quasi sempre precaria e provvisoria, è il prodotto sia della strategia di alcuni soggetti istituzionali o comunque con un ruolo significativo "nell’inserimento" degli immigrati, sia di una vera e propria "strategia di occultamento" della propria presenza da parte degli immigrati che si ritrovano in un’oggettiva condizione di marginalità e di più grave disagio.
Nel primo senso basti osservare come da sempre gli enti pubblici tendono a gestire l’inserimento di strutture di prima accoglienza o dei campi nomadi (si vedano le recentissime decisioni del Comune di Milano), in uno spazio che vuole essere poco visibile, circondato da un grande vuoto e il più possibile distante da edifici e quartieri, ma in questo modo anche da qualsiasi possibile servizio (commerciale, pubblico, culturale) che potrebbe evitare processi di rifiuto, di esclusione, di incomprensione, di incentivo a pratiche illegali per i nuovi arrivati.
Più in generale va detto che alcuni degli inserimenti provvisori e interstiziali precedentemente segnalati assumono aspetti simili.
Più frequentemente sistemazioni provvisorie e occultate alla vista sono legate a processi di inserimento di immigrati privi di risorse economiche e di legami parentali ed etnici attivabili e ai contesti locali dove più forte è l’assenza di politiche pubbliche.
In questi casi l’insediamento si realizza nelle forme più precarie utilizzando aree industriali dismesse, spazi posti ai margini e negli interstizi della grande rete infrastrutturale, nel territorio rurale abbandonato dall’agricoltura in prossimità dell’urbanizzato, nelle parti più estesamente e stabilmente abbandonate e degradate di taluni centri storici, in diversi edifici rurali abbandonati nei molteplici contesti rurali del nostro paese, in spazi comunque lontani dai quartieri residenziali della città. Si tratta dunque di spazi vuoti, talvolta fisicamente definiti ma abbandonati, talvolta strutturalmente vaghi dal punto di vista della loro definizione formale e d'uso e che pertanto possono essere occupati da soggetti senza cittadinanza e capacità di spesa, con sistemazioni minimali.
Alcuni elementi caratterizzano dunque quest’ultima fenomenologia insediativa. Il primo è la sistemazione alloggiativa, che talvolta ripropone forme delle baraccopoli del Terzo mondo, talaltra le più provvisorie sistemazioni degli homeless. Il secondo elemento è costituito dalla natura del terreno: un terreno vuoto, vago e sconnesso che ritroviamo sul retro del paesaggio pubblicitario e cinematico delle grandi infrastrutture urbane, oppure nelle zone di confine. Il terzo elemento è la mobilità sul territorio, la continua cancellazione e riproposizione in differenti punti della città di simili insediamenti. Il quarto elemento è costituito dalla selettività secondo alcuni caratteri: la tipologia familiare (la presenza di persone sole è più frequente), il ge-
nere (i maschi sono in assoluta prevalenza), la nazione di provenienza (maghrebini e albanesi, ad esempio, in relazione ad alcune specificità del progetto migratorio prevalente in queste popolazioni), la fase di inserimento (prevalgono gli ultimi arrivati). L’ultimo elemento distintivo nasce dalla frequente (ma non sempre presente) sovrapposizione che in tali spazi si registra tra marginalità abitativa e marginalità socioeconomica, tra esclusione dalla casa ed esclusione dal lavoro e più radicalmente dalla società.
Di fronte a questa presenza debole nel territorio, a questo insieme di flebili tracce nel paesaggio, le politiche e i progetti urbanistici sembrano muoversi con imbarazzo, rimuovendo una realtà insediativa così difficilmente trattabile e un problema sociale così radicale. La questione sociale viene rimandata in toto a politiche sociali specifiche, mentre un’ipotesi di organizzazione urbanistica in cui domina la ricerca, pur apprezzabile, del decoro urbano e di un ordine formale finisce per ridurre la "vaghezza" di questi spazi, che in una situazione di disagio estremo e in assenza di offerte alternative diventa una risorsa minima per gli immigrati e che nelle situazioni meno gravi consente persino di sperimentare forme di autorganizzazione e di riuso dello spazio di qualche interesse e potenzialità (specialmente nel caso di cascine ed edifici abbandonati).
"Esporsi" negli spazi pubblici
Uno dei temi urbanisticamente più interessanti che nasce dai recenti fenomeni di immigrazione è totalmente trasversale rispetto alle modalità insediative appena descritte. Esso è legato alla forza con cui queste popolazioni stanno utilizzando gli spazi pubblici storici e più consolidati delle nostre città (piazze, parchi, stazioni, ecc.), specialmente quando questi non sono interessati da una vita pubblica che poco si allontana dal binomio "passeggio commerciale nel salotto buono pedonale"; esso è legato all’imporsi di stili abitativi in genere radicalmente "esposti" e così lontani dalle pratiche abitative contemporanee sempre più introverse e ossessionate dal tema della privacy; esso è infine legato (questa volta in analogia con le pratiche abitative di altre popolazioni emergenti), a "un uso allargato" del territorio, alla costruzione di una nuova geografia di spazi pubblici che emergono "come delle fiamme" nel territorio e nelle città, lasciando deboli tracce sullo spazio materiale anziché configurazioni definite, ma risultando particolarmente sensibili nel loro emergere alle diverse possibilità d’uso e agli attributi prestazionali dei luoghi.
A tale proposito si possono innanzitutto segnalare, oltre agli spazi aperti dei quartieri etnicamente connotati, spazi come piazza Duomo, la stazione, i parchi Forlanini, Lambro, Martesana e Alessandrini a Milano,
piazza Vittoria e del Mercato a Brescia, Porta Palazzo a Torino, piazza Caricamento e della stazione a Genova che, per particolari porzioni e giorni della settimana, risultano ormai abbandonati dalla popolazione italiana mentre vengono eletti come luogo d’incontro (magari temporaneo e provvisorio) degli immigrati di una certa nazione che vi si ritrovano per scambiarsi informazioni, per incontrarsi, per svolgere alcune attività predilette nel tempo libero, talvolta ripristinando forme d’uso e ritmi temporali che in tempi non
molto lontani erano tipici dei fruitori italiani locali (nelle piazze di Brescia) o immigrati di tutta Italia (a Porta Palazzo a Torino).
Per altri versi va segnalata la costruzione, più innovativa ma egualmente stabile, di una geografia di spazi di culto, sedi di associazioni, ecc. che diviene talvolta occasione di costruzione di nuovi presidi nella città e nel territorio, magari riutilizzando spazi storici destinati a ciò. Un aspetto, quest’ultimo, raramente colto in tutta la sua portata anche nelle poche occasioni in cui viene esplicitato nel dibattito urbanistico (si veda il limitato dibattito sull’ipotesi di "costruire" una nuova moschea a Genova).
Quando pensiamo invece a pratiche d’uso che non si appoggiano o non costruiscono presidi nel territorio, ma lasciano più deboli tracce, possiamo riferirci, ad esempio, ai mezzanini di alcune stazioni della metropolitana di Milano, luogo d’incontro e di piccoli commerci di immigrati (senegalesi specialmente), più in generale ai mercati etnici capaci di generare eventi complessi per quanto mobili nel territorio (non di rado collocati presso una stazione ferroviaria minore, in una via periferica poco connotata dalla residenza, in spiazzi sottoutilizzati qualche giorno della settimana), ma anche alle presenze mobili e temporanee di ambulanti nei mercati rionali o lungo taluni storici percorsi commerciali, o ai crocicchi di persone che un veicolo di somministrazione ambulante di alimenti e bevande o l’apertura di servizi di telefonia internazionale genera in alcuni giorni alla settimana e in alcune ore del giorno. In questa stessa direzione dobbiamo anche pensare a una geografia sicuramente più "problematica", legata ad alcune attività illegali che si svolgono nello spazio aperto e coinvolgono quote significative di popolazioni immigrate: da più innocui crocicchi dove si concentrano i pulitori abusivi di vetri, ai viali della prostituzione, fino ad arrivare alle diverse piazze dello spaccio. Una geografia nient’affatto indeterminata e legata ad alcune infrastrutture (automobilistiche e ferroviarie) o sovrapposta a quella generata da popolazioni altrettanto mobili sul territorio, ma assai differenti come quelle dei "turisti d’affari" o dei "consumatori regionali" (a Milano la stazione centrale, i bastioni, la circonvallazione esterna e le grandi radiali d’accesso e circonvallazioni della città sono i capisaldi di questa diversa geografia).
Emerge in quest’ultima trasversale situazione insediativa una geografia "visibile" che si affianca a quella "invisibile" precedentemente descritta. Una geografia dai tratti contrastanti. Essa da un lato facilita le più semplicistiche procedure di stigmatizzazione sociale degli immigrati o di costruzione di uno stereotipo non sempre positivo degli stessi (senegalese-vu cumprà, tunisini-spacciatori, nigeriane-prostitute, ecc.) e si associa ad attività effettivamente "indesiderabili" e illegali e pertanto da combattere (si spera non solo spostandole "in periferia"). Dall’altro canto ancora una volta evidenzia un contributo che questi soggetti possono dare alla reinvenzione di alcuni luoghi urbani, alla rigenerazione di uno spazio pubblico sempre più socialmente segmentato, funzionalmente semplificato e architettonicamente banalizzato. Un contributo che può essere "conflittuale", ma in un senso molto diverso da quanto l’omologazione giornalistica ci costringe a pensare: conflittuale perché da una parte riempie di una molteplicità di popolazioni e soggetti alcuni spazi pubblici che sono stati progressivamente anestetizzati e ridotti rispetto alla loro complessità materiale e/o d’uso originaria, e perché d’altra parte si associa a popolazioni mobili sul territorio, a nuovi ritmi spazio-temporali, a modi d’uso dello spazio leggeri e provvisori che la progettazione architettonica e urbanistica, la politica dei tempi della città e più in generale le forme del governo urbano non riescono a trattare benché siano spesso fonte di rituali collettivi e di forme d’interazione collettiva che arricchiscono e connotano la vita urbana di
una città e di un territorio urbanizzato.